«Vedete, mio caro Lambest, in ogni uomo dabbene vi sono i germi del male, in ogni malvagio i germi del bene […] Ah, chi di noi può dire di non essere passato per le Porte del Male, sia pure col pensiero?».
In questa nuova indagine del mitico detective Enderton — nato dalla penna del fantasioso Alfredo Pitta — tutto sembra essere sempre il contrario di tutto. Se non ci si può basare sulle apparenze, in effetti, su che cos’altro si dovrebbe fare affidamento? Tutto ha inizio quando il signor Muldave, preoccupato per lui e la moglie, decide di rivolgersi a Enderton e Lambest. La sua famiglia sembra correre un grave pericolo: negli ultimi giorni, infatti, la cassetta della posta di casa Muldave ha ricevuto più di una quarantina di missive anonime, stampate con un ingegnoso trucco da ragazzini, recanti messaggi del tenore di “Morirai” e «La vendetta è vicina”. Comprensibile, quindi, la loro preoccupazione…
Alfredo Pitta (1875–1952) nasce a Lucera, dove si interessa precocemente alla letteratura e al giornalismo. Dopo aver pubblicato le prime novelle sul Foglietto — rivista diretta dal fratello Gaetano — si trasferisce a Roma, per collaborare al Messaggero di Roma, e poi a Milano. Nel 1904 entra come impiegato al Ministero dei Lavori Pubblici, posizione a cui affiancherà un febbrile lavoro di traduzione per Sonzogno e Mondadori. Negli stessi anni inizia a pubblicare i primi romanzi, che spaziano dal giallo al cappa-e-spada. Autore fertile e ricco di fantasia, pubblicherà una quarantina di libri, fra cui il celebre “Santajusta” (1936), incentrato sulla storia duecentesca della sua Lucera. Fra i suoi molti lavori, si possono citare anche “Castelmalo” (1931), “Le tredici colonne” (1933) e «L’idolo di Rankanava” (1940).